GUIDONIA – «Le cave come il Ponte Morandi» scrivevano al Comune di Guidonia Montecelio: dalla relazione finita agli atti  del ricorso promosso al Tar del Lazio dalla Str (Società del Travertino Romano Spa) contro l’Ente a settembre 2018, emergeva chiaramente come Paola Piseddu fosse condizionata da un approccio ideologico alla questione ambientale, travalicando le valutazioni tecnico giuridiche proprie del suo ruolo dirigenziale. Supportata nell’attività da una amministrazione 5Stelle da sempre incline alle battaglie filosofiche, poco rispettose dei codici amministrativi. Per questo anche il sindaco Michel Barbet, nel corso degli ultimi due anni, sistematicamente applicava il disastro ambientale come inoppugnabile certezza al sistema cave, in particolare alla Str, finita nel mirino della sua amministrazione, di riflesso della Procura della Repubblica di Tivoli per presunti reati ambientali. Ora però il Tar del Lazio, a conclusione di una vicenda giudiziaria già passata, a ottobre 2018, da una sospensione degli effetti dei provvedimenti di chiusura dell’azienda disposti dal Comune  il 10 agosto di quello stesso anno, dà definitivamente ragione alla società del Gruppo Lippiello. Rigettando la pretesa dell’Ente di fermare definitivamente le macchine all’interno dell’area di cava numero 6. La sentenza 3305 è stata depositata ieri 17 marzo 2020. Ventuno pagine nelle quale i giudici della seconda sezione del Tribunale amministrativo del Lazio sostanziano che l’Ente, prima di fermare la Str revocando l’autorizzazione a cavare, avrebbe dovuto contare su un dettagliato ventaglio di prove atte a dimostrare il danno ambientale, invece di ipotizzarlo come fece l’ex dirigente all’Ambiente Paola Piseddu, sulla base di un verbale di accertamento del 28 giugno rilasciato dal funzionario comunale Donatella Petricca a seguito di sopralluogo presso l’azienda stessa.

La revoca del 10 agosto 2018

Piseddu e Petricca contestarono alla Str una lunga serie di gravi inosservanze rispetto ai termini fissati nell’autorizzazione rilasciata a Str il 19 gennaio 2012, scaduta il 19 novembre 2016 e per la quale, ad agosto di quello stesso anno, l’azienda aveva richiesto alla Regione Lazio il rinnovo per altri dieci anni. Secondo il dirigente e il funzionario la società, fino al 2018, aveva operato in proroga senza nemmeno mettere in campo tutte le attività di ritombamento, nei tempi e modi a loro dire strettamente previsti dalla legge. Fino a creare una voragine, la «buca» come viene definita nelle carte amministrative, tanto grande da determinare un grave danno ambientale. A «occhio e croce» le due dipendenti del Comune, nei verbali dei sopralluoghi e negli atti amministrativi, stimavano la «buca» grande come un vuoto di oltre 2 milioni e mezzo di metri cubi, fino a rappresentare «una oggettiva criticità ambientale anche in ragione della posizione della cava all’interno del perimetro di tutela della concessione mineraria delle acque albule». Queste valutazioni arbitrarie portarono al provvedimento di revoca dell’autorizzazione notificato a Str il 10 agosto 2018, l’ultimo giorno di attività dell’azienda prima delle vacanze estive, gettando le maestranze in una condizione di incertezza sul futuro lavorativo. Adesso il Tar sentenzia che si trattò di tesi infondate, di numeri dati a casaccio, appunto a «occhio» dalle dipendenti, quindi con approssimazione e superficialità.

Le cave come il Ponte Moranti, il grave pregiudizio ideologico  

Il 15 settembre del 2018, all’indomani del ricorso al Tar presentato della Str, Paola Piseddu scrive all’Avvocatura comunale con l’intenzione di integrare le linee di difesa dell’Ente affidate all’avvocato esterno ma vicino ai 5Stelle Luigi Leoncilli. Il dirigente ha la necessità di blindare la tesi del danno ambientale alla base della decisione di fermare l’azienda, al contempo di condizionare la condotta del legale imponendo il suo punto di vista. Lo fa attraverso una relazione con all’oggetto «opposizione al ricorso davanti al Tar presentato da Str […] controdeduzioni alle accuse di Str sulla revoca dell’autorizzazione all’escavazione di cui al protocollo 73748 del 10 agosto 2018».

L’Incipit è chiaramente indicativo del pregiudizio, confermato dalle misurazioni «a occhio». A casaccio ma utile a dimostrare il danno ambientale: «Il Ponte Morandi è venuto giù perché qualcosa è andato storto con i controlli, è inutile girarci intorno – scrive Piseddu – (20 indagati, il magistrato dice che erano a conoscenza della situazione e avrebbero dovuto lanciare l’allarme) questo vale in ogni campo, in modo particolare per quello ambientale. E se dai controlli ne consegue un costo di qualunque genere, sia economico che occupazionale, bisogna avere il coraggio di affrontare la realtà, non lasciare la testa sotto la sabbia e mettere in atto i comportamenti conseguenti»: purtroppo per Piseddu la sua realtà era stata fatta «a occhio». Un parametro non contemplato dalle procedure amministrative.

Il Tar sui materiali di risulta per i ritombamenti

Nella sentenza di ieri, il Tar dà indicazioni anche sul tipo di materiali che potranno essere utilizzati dalla aziende nelle operazioni di ritombamento dei vuoti di cava, altro oggetto del contendere tra Comune e attività estrattive. Scrivono i giudici  che in base «all’attento esame della documentazione», è da escludere «l’esistenza nelle autorizzazioni di una prescrizione che imponga il solo impiego di risulta della cava medesima». Questo apre all’utilizzo di altri materiali purché compatibili secondo i parametri già riconosciuti da leggi e giurisprudenza in materia di attività di ripristino ambientale.

LEGGI anche la sentenza 3305  pubblicata ieri 

AUTORE: Elisabetta Aniballi

Blogger e Giornalista professionista. Nella sua trentennale carriera ha maturato esperienze prevalentemente nella carta stampata senza mai nascondere l'amore per la radio, si occupa inoltre di comunicazione politica e istituzionale.

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