GUIDONIA – La questione cave è tecnica, burocratica, soprattutto politica. Intreccia personalismi e ambizioni imprenditoriali in un territorio da anni diviso dall’uso della risorsa termale, forse la vera posta in gioco della partita. C’è una mano nascosta che muove i fili per staccare la spina al settore estrattivo? Decretarne la morte depotenziando la forza economica delle imprese sullo sfondo di un anno X sempre più vicino? Il fondamento (che innesca i quesiti) è la accertata impossibilità di coabitazione tra Cave e Terme nello stesso ambito di intervento. E l’avvicinamento di una data, il 2022, che deciderà il futuro (e gli investimenti ventennali) del monopolista termale Bartolomeo Terranova. Nel ’22 scade infatti  la concessione per l’utilizzo dell’acqua (negli ultimi 100 anni appannaggio esclusivo del Comune di Tivoli), la risorsa che ha portato a consistenti capitalizzazioni, alla nascita di un Parco termale esteso 50 ettari e di progetti (già deliberati dal consiglio comunale) per nuovi alberghi, impianti sportivi ricreativi, residenze per anziani. Attrarre nuovi investimenti passando per una riqualificazione del territorio ne erano stati i presupposti e il fine, le cave la realtà ad impedirne positivamente gli sviluppi. Come l’amministrazione 5Stelle, oggi alla guida della città, intenderà governare questa fase cruciale per la politica (prima che dell’economia) è una scommessa; come incerto è il grado di consapevolezza della posta in gioco del sindaco Michel Barbet e della sua giunta di neofiti, quanto meno delle storie guidoniane. In questo scenario, ipotetico per ciò che riguarda il futuro, andrebbero (anche) letti gli accadimenti delle ultime settimane che, in un crescendo di scelte tecniche apparentemente obbligate da parte del Comune di Guidonia Montecelio, hanno messo in ginocchio il settore cave.

La crisi delle imprese, e il lavoro che da esso dipende, ha avuto origine negli uffici dell’Ente sulla interpretazione delle leggi che regolano il comparto estrattivo regionale. Il dirigente Paola Piseddu (nel circuito del monopolista termale, quanto meno per ragioni familiari) da qualche mese ha iniziato a rifiutare agli imprenditori il rinnovo di autorizzazioni e ampliamenti alle attività, sostenendo (inoltre) la impossibilità di una via d’uscita positiva dall’impasse burocratico. Per la dirigente, la coltivazione del travertino ha esaurito i suoi ambiti d’intervento. Negli anni, è il suo ragionamento, le aziende avrebbero dovuto operare il ripristino ambientale, provvedere cioè al ritombamento delle immense buche lasciate nel terreno dall’estrazione delle lastre (vendute sul mercato internazionale), ma non l’hanno fatto e ora  è tardi. L’obbligo di legge c’era e occorreva rispettarlo, i materiali derivanti dallo scarto di lavorazione andavano usati per ritombare e non finire sul mercato dell’edilizia, trattati  con impianti spesso fuori norma, diventando un’altra importante voce di profitto per gli imprenditori.

C’e tuttavia un limite a questo schema di pensiero di Piseddu. Riguarda l’impiego di materiali alternativi per il ripristino ambientale: gli interti con particolari codici Cer (la classificazione dei rifiuti operata dalla Comunità europea) che la legge autorizza, seppur con interpretazioni contrastanti. Lo sanno bene le imprese del settore estrattivo un po’ ovunque in Italia alle prese con il medesimo problema. Ad esempio la Provincia di Verona ha chiesto, per le aziende di quel distretto industriale, un parere chiarificatore (sulla lettura della norma) al ministero per lo sviluppo economico che ha confermato la strada del legittimo utilizzo di altri materiali al fine del ripristino ambientale. Un precedente interpretativo favorevole, sottoposto all’attenzione di Piseddu ma ignorato dal dirigente.  Quella “sistematica azione di contrasto all’attività di coltivazione del travertino romano da parte dei tecnici del comune” di cui parlano i sindacati? Il 4 aprile circa 300 lavoratori del settore hanno manifestato sotto le finestre del sindaco a difesa del posto di lavoro. La crisi del settore riguarda 2000 tra maestranze e indotto, una condizione di difficoltà estrema ignorata dagli uffici, impermeabile a Piseddu e al sindaco Barbet alla disperata (e vana) ricerca del bandolo di una matassa che evidentemente non conosce.

Le cave hanno autorizzazioni a tempo, molte operano a partire dagli anni ’80 del secolo scorso con autorizzazioni alla prosecuzione durate per vent’anni. Ci sono state le prime proroghe per 5 anni, poi le seconde proroghe per ulteriori 5 anni, ora molte sono in fase di rinnovo per un massimo di 10, come legge prevede. Gli imprenditori accennano di  “vecchi progetti molto generici dove si parlava di utilizzare lo sterile  per la chiusura delle fosse” anche se “non c’era una regolamentazione delle terre come è oggi” quindi “sono cambiate le leggi non le cave”. Solo di recente, dall’entrata in vigore delle nuove normative, si è posto il problema del recupero ambientale, ed è anche vero – fanno notare – che alcune società hanno presentato progetti di recupero che il comune non si è mai degnato nemmeno di istruire. Le attività, salvo eccezioni, per gli imprenditori sono dunque “condotte nel rispetto della normativa vigente, e il ripristino dell’area di cava è una attività che deve essere valutata a conclusione dell’attività estrattiva autorizzata e non, invece, al momento della concessione della proroga o dell’ampliamento”. Piseddu è quindi nel torto?

Il punto veramente dirimente di questa faccenda non sembra dunque se i cavatori, negli anni, siano stati o meno inadempienti con l’obbligo del ripristino ambientale, ma se oggi, per le leggi vigenti, abbiano diritto o no a presentare  progetti di recupero con l’utilizzo di materiali alternativi, ottenendo di conseguenza il rinnovo delle autorizzazioni e delle richieste di ampliamento. Dalla documentazione in possesso della scrivente, Piseddu non sembra essere stata in grado di citare una sola norma alla base dei preavvisi di rigetto fatti pervenire alle imprese; alcuna disposizione di legge che gli imprenditori avrebbero violato e la cui inevitabile conseguenza sarebbe il diniego a nuovi ampliamenti e autorizzazioni. Lo fanno notare del resto gli avvocati delle aziende pronti a impugnare in sede di giustizia amministrativa i numerosi preavvisi, con la motivazione che essi sarebbero interpretazioni personalistiche della normativa da parte del dirigente, ricorsi che, aggiugono, esporrebbero il comune a cause costose con rimborsi di spese legali gravosi per le finanze dell’Ente. Certo, a ben guardare i precedenti, Piseddu sulle interpretazioni normative non c’azzecca quasi mai, recente è la “toppa” sugli oltre 2.000 loculi cimiteriali a suo dire da demolire per il ripristino della legalità, scelta avventata (fosse solo su un piano logico) e infatti cancellata dal Tar (Tribunale amministrativo del Lazio). Sarà così anche per le cave?

AUTORE: Elisabetta Aniballi

Blogger e Giornalista professionista. Nella sua trentennale carriera ha maturato esperienze prevalentemente nella carta stampata senza mai nascondere l'amore per la radio, si occupa inoltre di comunicazione politica e istituzionale.

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